13 Marzo 2023

A Taranto, un ristorante per ricominciare

Art. 21, a Taranto, è un ristorante sociale (primo nel suo genere in Italia) che offre a chi ha scontato o sta finendo di scontare una pena la possibilità di un lavoro per ricominciare a vivere. E non solo a loro. Anima del progetto il cappellano del carcere, don Francesco Mitidieri.

Il ristorante sociale Art. 21 è il primo del suo genere nel sud Italia. Collocato tra il mare e il quartiere Tamburi di Taranto, noto per lo stabilimento siderurgico dell’Ilva, il locale è luogo da cui chi si è arenato nelle secche dell’errore e della fragilità umana, può riprendere il largo. Soprattutto per chi è stato in carcere, questo luogo è una scommessa vinta che porta i segni della passione e dell’impegno.

In Italia, con un tasso di recidiva del reato al 70%, il lavoro è la via maestra per il riscatto. Il background di provenienza degli ex detenuti pesa sulla possibilità di reinserirsi nella società, ma la situazione cambia se, a chi ha scontato o sta finendo di scontare la pena, è data la possibilità di lavorare. Infatti, secondo i dati del CNEL, tra i 18.654 detenuti che hanno un contratto di lavoro, solo il 2% torna a delinquere.

Nell’abisso delle nostre carceri ci sono anche tanti semi di speranza e il caso di Taranto è uno di questi. Nato sotto la spinta di don Francesco Mitidieri, presidente dell’associazione “Noi e voi” e cappellano del penitenziario della città pugliese, il ristorante sociale è un luogo dove chi proviene dal mondo della detenzione, dalle periferie o dai centri straordinari di accoglienza per l’immigrazione può trovare un’occasione per ripartire dal lavoro.

A gestirlo è la Cooperativa “Noi e voi”, nata nel cuore dell’associazione omonima, il cui presidente è Antonio Erbante. Grazie al progetto “Il luogo della Calende” vincitore del Bando Orizzonti Solidali 2015, e al finanziamento della Fondazione Megamark di Trani, il ristorante sociale Art. 21, è diventato nel tempo un intreccio di storie, di culture e di speranza. “Il ristorante – spiega il presidente – sia per i ragazzi immigrati, sia per i ragazzi del quartiere e per quelli di strada, è la possibilità di essere formati e trovare lavoro”.

 Attualmente il personale è composto da sei dipendenti, tra cui Nicola, che dalla detenzione è arrivato ad Art. 21 e ora dirige il ristorante. Ma tra quei fornelli ne sono passati molti: come Giuseppe, che tra un piatto e l’altro è rimasto un anno e mezzo per poi trovare un altro impiego; come Luki, che ora lavora sul lago di Como, o come Loredana, che tra quei tavoli ha visto cambiare il suo contratto da tempo determinato a indeterminato.

 “Art. 21 è come una giostra che gira, c’è chi entra e c’è chi esce, perché sennò saremmo come gli altri ristoranti: qui ognuno deve prendere la sua strada. Qualcuno non ce l’ha fatta ed è tornato dentro ma – aggiunge Erbante – purtroppo fa parte della scommessa”.

La trattoria è la prova che il delicato passaggio dai circuiti penali alla libertà richiede percorsi che possano valorizzare la dignità della persona, andando oltre il passato di ciascuno. Riconciliare la persona con la società attraverso lo strumento del lavoro è una soluzione vincente.  Infatti, “la percentuale di recidiva è bassissima – rimarca don Francesco Mitidieri – proprio perché quando si riesce ad affiancare le persone in quel periodo dell’uscita dal circuito penale, che è un po’ delicato, si riesce a consolidare quelli che possono essere i punti di forza della persona sia nelle relazioni famigliari, sia con la società e nel mondo del lavoro”.

Un solo nome, tante spiegazioni

Il nome di questo ristorante sociale evoca la libertà di espressione sancita proprio dall’ art. 21 della nostra Costituzione, ma anche quanto stabilito dallo stesso articolo dell’ordinamento penitenziario a proposito dell’assegnazione del lavoro all’esterno degli istituti. Il medesimo numero, poi, richiama anche l’articolo del testo unico sull’immigrazione per le quote migranti (la quota massima di ingressi per motivi di lavoro).

Un insieme di condizioni che rendono possibile quella “convivialità delle differenze” a cui era molto legato il vescovo di Molfetta don Tonino Bello. Ed è proprio attorno ad un tavolo, immagine per eccellenza di condivisione e ristoro, che molte persone hanno potuto riabbracciare la propria dignità e restituirsi alla vita.

Il ristorante sociale è un luogo di integrazione dove poter “avere le giuste opportunità – conclude don Francesco – per potersi relazionare con gli altri”, un luogo in cui potersi riconciliare con la propria storia e la società, dove il riscatto passa per il lavoro, un vero e proprio laboratorio di promozione sociale.

(di Giacomo Capodivento – foto gentilmente concesse da “Art. 21”)

13 Marzo 2023
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