29 Maggio 2025

Da Como a Carabayllo: don Roberto nel Perù di papa Leone

Anche don Seregni, fidei donum di Como dal 2013 a Carabayllo, nella periferia Nord di Lima, si sente ‘peruano’, proprio come è accaduto a Leone XIV nel suo passato missionario a Chiclayo. Per la sua esperienza pastorale don Roberto si sente parte della gente e del clero diocesano e ha cercato «di vivere questi anni con semplicità, respirando l’energia e la vitalità della Chiesa latinoamericana».

«È sempre stato molto apprezzato come vescovo nella sua diocesi di Chiclayo, per la semplicità, la mitezza e la capacità di ascolto. La gente sente che Leone XIV è un papa ‘peruano’, nonostante sia nato negli Stati Uniti, e abbia origini francesi, italiane, spagnole». Ma anche lui, don Roberto Seregni, fidei donum di Como dal 2013 a Carabayllo, nella periferia Nord di Lima, si sente ‘peruano’. Per la sua esperienza pastorale che lo fa sentire parte della gente e del clero diocesano, ha cercato «di vivere questi anni con semplicità, respirando l’energia e la vitalità della Chiesa latinoamericana, da cui proprio nel 2013 è venuto papa Francesco». Don Roberto, 46 anni, si è formato nella diocesi di Como, e dopo otto anni di servizio in due comunità per la pastorale giovanile, ha sentito una chiamata alla missione. Poi è arrivata la proposta di andare come sacerdote fidei donum nella parrocchia di San Pedro de Carabayllo, nella diocesi fondata 27 anni fa in una zona di immigrazione interna ed estrema povertà, con circa 85mila abitanti, divisa in 22 comunità.
«Quando sono arrivato non c’era praticamente nulla, Lima è una delle megalopoli più contaminate e caotiche del mondo, con i suoi oltre 13 milioni di abitanti, è una delle città più popolose delle Americhe. Fin dall’inizio abbiamo cercato di avere un rapporto molto diretto con le famiglie, con le persone, cercando di decentrare il lavoro pastorale in piccole comunità. Per alcune di queste siamo riusciti a costruire ambienti dove riunirci per la Messa, per la catechesi, per qualche momento comunitario. In altre invece gli incontri si fanno o in un garage o in una piazza o in un parco».

Urbanizzazione e religione popolare

La parrocchia di San Pedro è molto grande per i tre sacerdoti – due di Carabayllo oltre a don Roberto -, impegnatissimi a seguire le varie comunità, alcune raggiungibili con un’ora di macchina. Fondamentale quindi puntare sulla «formazione dei laici, che attraverso una vita evangelica possano annunciare il Vangelo e coordinare il lavoro della catechesi e della pastorale sociale nelle varie comunità. Come preti cerchiamo di essere “formatori dei formatori”, di preparare laici che possano coordinare e accompagnare il cammino delle comunità».
Come accade nelle megalopoli di tutto il mondo, anche la periferia di Lima è cresciuta attraverso le stratificazioni di varie ondate di immigrazione interna. Ci sono famiglie che hanno vissuto sulle zone andine, altre nella foresta amazzonica, altre che vengono dal Cuzco, dalle grandi civilizzazioni antiche del Sud del Paese e che arrivano a Carabayllo, dove c’è, spiega don Roberto «una mescolanza davvero enorme e affascinante di culture e di tradizioni. Una delle grandi sfide che come missionari in America Latina stiamo cercando di vivere, è quella dell’evangelizzazione della religiosità popolare. Evitando due rischi: da una parte quello di buttare nel cestino tutte le devozioni popolari che potremmo bollare come tradizioni vuote; dall’altra parte quello di esaltare queste tradizioni, alcune anche mischiate con riti ancestrali della popolazione». Don Roberto, autore di numerosi testi di esegesi biblica pubblicati dall’editrice Ancora, parla dell’importanza di evangelizzare queste tradizioni, ovvero «le processioni con i santi, o alcuni riti che ci sono ancora nella cultura locale che sono a volte un mix tra quello che resta dell’annuncio dei primi missionari e le tradizioni sciamaniche pre-ispaniche. Cerchiamo di rispettare le devozioni dei santi riconducendoli però al centro, che deve essere sempre Gesù. È importante far vedere che questi santi non sono delle piccole divinità, ma che tutti i santi sono delle frecce che puntano verso Gesù».

Quello che la missione mi ha insegnato

In America Latina è più stridente il contrasto tra grandi palazzi puliti e luccicanti e le baracche di lamiera, cartone e plastica a pochi metri: immagini che ogni volta sono un pugno allo stomaco. Insormontabile appare la contraddizione tra gli scorci da cartolina della capitale e la realtà di come la gente vive senza mezzi (e spesso senza speranza di averne). In queste periferie del mondo i bambini sono segni di speranza. Decine di ragazzini e adolescenti rallegrano le funzioni religiose nelle comunità, mentre in Italia, quando don Roberto torna in visita a Como, scarseggiano i piccoli e si vedono tante teste grigie nei banchi. Ricordando i primi tempi in Perù, dice che è arrivato in missione «un po’ allo sbaraglio, perché forse non avevo la preparazione sufficiente per poter essere parroco in una zona tanto complicata. La fatica all’inizio è stata proprio quella di ‘cambiare il chip’ e scoprire di essere lì per poter riconoscere un Cristo già presente e poter condividere la fede come sacerdote con altri fratelli e sorelle. Ovviamente questo è legato anche all’umiltà. Chi è in missione deve farsi piccolo, deve saper sedersi con la gente più povera, aspettare, non avere fretta, accompagnare più che imporre. In questi anni ho imparato ad avere pazienza. In America Latina ci sono dei tempi, dei modi che sono molto diversi e che ora sono diventati parte di me, dello stile dell’annuncio del Vangelo che ora mi appartiene».

(di Miela Fagiolo D’Attilia – foto gentilmente concesse da don Roberto Seregni)

29 Maggio 2025
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