I parrocchiani “angeli custodi” dei pazienti del Gaslini
Nella Casa dell’Angelo “Don Aldo Cresta & Anna e Mimmo” vengono accolte le famiglie dei bambini in cura all’Ospedale pediatrico “Gaslini” di Genova: un servizio quotidiano di condivisione, di ascolto, di accoglienza non solo materiale, impossibile senza l’impegno dei parrocchiani di don Stefano Bisio: "Il contatto con la sofferenza ha segnato il nostro cammino umano e pastorale".
“Qui non c’è un ente, un’associazione dedicata ma una comunità cristiana, un gruppo di persone in relazione tra di loro, nata in un cammino di fede che vive con le porte aperte e prova ad accogliere in maniera famigliare”. Così don Stefano Bisio, 40 anni a novembre, parroco di una comunità di parrocchia tra cui la chiesa dei Santi Angeli Custodi di Quarto, a Genova, definisce l’essenza della Casa dell’Angelo “Don Aldo Cresta & Anna e Mimmo”, dove vengono accolte le famiglie dei bambini in cura all’Ospedale pediatrico “Gaslini” di Genova. “La Casa dell’Angelo – ricorda il sacerdote ligure – è nata con l’istituzione della parrocchia stessa, una settantina di anni fa. Dato che si trova nella zona del “Gaslini” fin da subito la comunità ha sentito una vocazione, una vicinanza per la cura e per la custodia per i bambini che venivano o che erano ricoverati in ospedale”. “La casa vera e propria – prosegue – ha iniziato ad avere una struttura chiara alla fine degli Anni Ottanta. Tutti i parroci che si sono susseguiti, a partire dal primo, don Aldo Cresta, a cui è intitolata, hanno sentito l’esigenza di mettere a disposizione i locali della parrocchia, a partire dalla canonica, alle famiglie provenienti dalle varie parti d’Italia che accompagnavano i bambini, durante il tempo dell’ospedalizzazione”.
Le porte sempre aperte
Una vocazione alla cura, seguita da chi ha guidato la parrocchia dei Santi Angeli Custodi che è cresciuta nei decenni. “La casa – spiega il sacerdote che vive nello stesso complesso – è composta da tre appartamenti, gli ultimi due inaugurati nel 2021, che rendono possibile l’accoglienza in autonomia, con cucina e bagno”. “La prima unità, quella con la storia un po’ più lunga, dove era nata la prima forma di accoglienza, chiamata in origine La casa delle mamme nutrici – prosegue don Stefano, che è anche docente dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose Ligure – corrisponde alla casa parrocchiale e può accogliere al massimo sette mamme, oltre alla possibilità di avere i bambini in casa, quando non sono ricoverati. Le altre due, quelle più recenti, permettono la permanenza di nuclei famigliari, uno per ciascuno e sono dedicati a due reparti specifici del “Gaslini””.
Un’organizzazione, quella della casa di accoglienza, che permette di soddisfare le esigenze particolari di chi vi soggiorna. “Ad esempio consente di salvaguardare gli immunodepressi – racconta il sacerdote genovese, parroco anche della comunità di San Gerolamo di Quarto e di quella di San Giovanni Battista di Quarto – con un’abitazione dove non ci sono altre persone”. “La nostra accoglienza è totalmente gratuita – dice don Bisio –: noi diamo vitto e alloggio per il periodo della permanenza, che può essere breve, ad esempio un mese, o anche un po’ di più ma non per lunghi periodi, perché la casa è sempre richiesta. La scelta della gratuità è legata anche al fatto che spesso le famiglie per stare a Genova con i propri figli ricoverati rinunciano a uno stipendio o a un’entrata economica”. Le porte della struttura sono sempre aperte. “Le modalità di accesso alla casa di accoglienza – spiega il parroco – sono legate ai contatti che ci arrivano. Possiamo essere raggiunti in varie forme, compreso Internet. In più c’è un nostro collaboratore che spesso è al Gaslini che cerca di coordinarsi con noi quando viene a conoscenza di situazioni particolari. Alcune di queste vengono vagliate, anche perché non possiamo dare tempi lunghi di permanenza e ci sono delle famiglie che, dovendo eseguire controlli o terapie periodiche, ci chiedono di prenotare in anticipo. Noi diamo precedenza a chi è più in difficoltà”.
Il ruolo dei volontari
Un lavoro quotidiano di condivisione, di ascolto, di accoglienza non solo materiale, impossibile senza l’impegno dei parrocchiani. Tra di loro ci sono Gianni Mameli, 71 anni e sua moglie Elena. “Mi occupo del coordinamento da 17 anni – spiega il volontario – quando la signora Maria una delle anime della Casa mi chiese se volessi dare una mano, io ho accettato”. “A queste famiglie – aggiunge Gianni – non serve solo un posto dove dormire, ma una parola, uno sguardo, un gesto di conforto. Il nostro motto è esserci sempre, per fare famiglia”.
L’accoglienza di un centinaio di famiglie all’anno, dall’Italia ma anche dall’estero è assicurata da una decina di volontari per cui la parola chiave è accompagnamento. “Cerchiamo di farlo nella maniera più discreta possibile – racconta Gianni – non sempre chi è nella Casa di Accoglienza ha voglia di parlare o di socializzare, a volte magari vogliono solo stare tra loro”. “Concretamente – aggiunge il volontario – si tratta di aspettare le famiglie all’arrivo, di accompagnarle al Gaslini e magari introdurle nell’ambiente e di star loro vicino durante la permanenza e assistendole anche per eventuali esigenze burocratiche o per gli imprevisti”. Tante cose da fare, ma una grande gioia quotidiana per Gianni. “Sembra banale – spiega – ma io più che donare sto ricevendo tanto. Riuscire ad accompagnare i miei fratelli più piccoli in momenti così delicati mi arricchisce e ti ripaga di quando qualcuno magari non si comporta come dovrebbe”. “Leggere i ringraziamenti delle famiglie che abbiamo ospitato – gli fa eco Elena – ci riempie d’orgoglio e ci fa commuovere.”
La scuola della fragilità
L’esperienza dell’accoglienza e del contatto con la sofferenza ha segnato anche il cammino umano e pastorale di don Stefano. “Come uomo e come sacerdote – spiega il parroco – l’impatto con la sofferenza dei bambini e anche con il lutto che deriva da alcune malattie che non si possono curare mi mette davanti alla necessità di imparare l’umiltà e riconoscere nella fragilità il percorso per riconoscere meglio Dio. Dalla comprensione di non poter fare tutto imparare a stare accanto alle persone anche nel silenzio”. “L’incontro con le famiglie che accogliamo – aggiunge – permette delle riflessioni e dei richiami a potenzialità tanto belle che la nostra umanità possiede. Gli esempi e le storie sono tanti. Una sera abbiamo saputo che era venuta a mancare una bambina accolta da noi. Mi ha colpito come ognuno di noi volesse essere vicino e presente. Oppure, prima dell’inaugurazione dei nuovi appartamenti nel 2021, c’erano tre donne accolte per tre casi differenti, di culture e di paesi diversi, che pur non parlando la stessa lingua si capivano, si accompagnavano e quando uno dei bambini è venuto a mancare, tutte l’hanno pianto. E poi hanno partecipato alla preparazione per l’apertura della casa”. “Queste esperienze sono educative anche per noi come comunità – conclude don Stefano Bisio – per non cedere all’idea che l’accoglienza sia solo un valore: è uno stato di vita e in quanto cristiani noi capiamo e doniamo accoglienza nella misura in cui ci facciamo accogliere da Gesù nella nostra fragilità e facciamo della nostra debolezza un’occasione per crescere in umiltà e per stare accanto alle persone”.
(di Roberto Brambilla – foto gentilmente concesse da don Stefano Bisio)