25 Novembre 2022

Un cesto di uova, l’oro di Maygogo: don Silvano e il suo Ciad

È appena rientrato dal Ciad, uno dei paesi più poveri del mondo, nonostante il suo sottosuolo sia colmo di ricchezze (sfruttate da altri). Don Silvano Perissinotto (fidei donum della diocesi di Treviso) ci racconta dei suoi 16 anni e mezzo vissuti tra i Tupurì. Inculturarsi per annunciare il Vangelo è difficile, ma regala una gioia che non ha prezzo.

«Il mondo visto dal Ciad – cioè dal sottoscala del pianeta – si riassume così: c’è una fetta di umanità che vuole tenere stretti i suoi averi, le sue conoscenze e il suo potere (facendo man bassa dappertutto) e un’altra fetta che fa fatica ad arrivare alla fine del mese (qualcuno alla fine della giornata)». Così don Silvano Perissinotto, 57 anni, di Noventa di Piave (VE), ci parla del Ciad, dove ha vissuto come fidei donum della diocesi di Treviso per 16 anni e mezzo, e da cui è rientrato da poche settimane. L’ex colonia francese è un Paese poverissimo, al penultimo posto dell’Indice di sviluppo umano. Ma è anche una giovane Chiesa, dove l’incertezza della situazione nazionale, dopo l’uccisione del presidente-monarca Idryss Déby (20 aprile 2021), si intreccia con l’inquietudine per il futuro di un popolo bisognoso di segni di speranza. Questi ultimi mesi (in cui il potere è passato nelle mani del figlio, il generale Mathan Déby, a capo di una giunta militare) sono stati difficili, malgrado l’impegno formale per un dialogo inclusivo nazionale. E il 20 ottobre scorso nella capitale Ndjamena e in altre quattro città ci sono state manifestazioni con molti morti: 50 secondo il governo, 150 per l’opposizione.

Da poco rientrato nella parrocchia dei SS. Patroni di Marcon (TV), don Silvano ricorda quel giorno di violenze e paura nella capitale dove «già dall’alba si sentivano colpi di fucile e mortaio. L’ordine perentorio dato alle forze di repressione è stato di terrorizzare tutti con numerose granate lacrimogene lanciate contro case e parrocchie nei quartieri più popolari della città. Il 21 la situazione è migliorata, ma è stata una manifestazione sedata nel sangue. In questo momento c’è calma assoluta, probabilmente dettata dalla paura. I militari continuano a girare come prima, il Ciad è un paese militarizzato, nelle città c’è il coprifuoco e la situazione è sotto il controllo del governo».

A Fianga, nella diocesi di Pala, a 15 chilometri dal confine con il Camerun, dove soffia l’harmattan, il vento che viene dal Sahara, don Silvano ha vissuto nel territorio abitato dai Tupurì, uno dei 200 gruppi etnici e linguistici che compongono la popolazione del Ciad, circa 17 milioni di abitanti sparsi in un Paese più grande del Sudafrica, per la maggioranza desertico. La sua è stata una missione divisa in due tempi, con «un primo step dal 1995 al 2008, poi il rientro in Italia per 10 anni, come direttore del Centro diocesano missionario di Treviso, e infine una seconda permanenza dal 2018 fino all’inizio di novembre scorso. Nel 1995 ho trovato un Paese che a tutt’oggi è uno dei più poveri al mondo, una giovane Chiesa con pochi cristiani (tra cui protestanti e ortodossi) in un contesto prevalentemente musulmano. Ho dovuto imparare, oltre al francese, anche il tupurì e non è stato facile. Sono entrato un po’ alla volta, in punta di piedi, e dopo tanti anni mi sembra di essere ancora all’inizio:

mi è rimasto il desiderio di approfondire la cultura locale, come se avessi solo aperto una finestra su un mondo».

Ci è voluto del tempo per entrare nel vivo con le etnie locali perché «gli uomini della savana ti studiano molto prima di entrare in relazione; devi mostrare che vuoi loro bene attraverso l’apprendimento della lingua e il rispetto della loro cultura». Su tutto domina l’ombra di una grande povertà che rende essenziali le relazioni umane, anche se fatte di pochi, semplici gesti.

Racconta di una donna tupurì, Maygogo del villaggio di Nembagri che lo ha avvicinato all’ospedale di Sere, dicendo «Mon père, mio marito sta morendo e non ho nessun mezzo per portarlo a casa». Il missionario ha subito caricato in macchina l’uomo magrissimo, probabilmente malato di Aids in fase terminale. Arrivati al villaggio, è stato portato nella capanna, dove la moglie lo ha adagiato sul letto e gli ha sorretto il capo in silenzio fino alla fine. L’immagine di questa “pietà” africana è rimasta impressa nel cuore di don Silvano ed è riemersa mesi dopo, quando Maygogo gli ha portato un cestino di uova per ringraziarlo. «Mi raccontò che il suo sposo era morto poco dopo tra le sue braccia. Le sue uova sono state uno dei segni più belli ricevuti in Ciad, un grazie semplicissimo ma carico di vita, di gratuità, più prezioso dell’oro».

E pensare che il poverissimo Ciad, di oro – del minerale prezioso – è pieno, così come di petrolio e di uranio. Il suo sottosuolo è uno dei più ricchi del continente africano, con risorse naturali che vengono sfruttate da multinazionali straniere. La presenza di Boko Haram nella regione del Lago Ciad, i cambiamenti climatici che hanno stravolto la geografia della regione, la pipeline nella regione di Doba, la corruzione nell’amministrazione statale rendono precaria la quotidianità dei ciadiani, abituati a vivere con gravi problemi di approvvigionamento idrico e difficoltà di accesso ai servizi essenziali come scuola, viabilità e corrente elettrica. Solo il 40% della popolazione sa leggere e scrivere, il 66% vive sotto la soglia di povertà e il 43% dei bambini soffre di malnutrizione. «È importante sottolineare – dice ancora don Silvano – la sinodalità dell’annuncio del vangelo. Lo Spirito Santo ci precede sempre e la collaborazione fiduciosa con laici, religiosi e religiose è di fondamentale importanza.

Ritorno a Treviso con la gioia di sapere che altri tre preti fidei donum della mia diocesi rimangono in Ciad,

nella diocesi di Pala, per continuare questa esperienza di collaborazione tra le Chiese». Ora che è tornato in Italia, don Silvano porta i suoi “tesori d’Africa” nel servizio di parroco: «qui c’è bisogno di rievangelizzare persone che magari hanno lasciato da tanti anni la Chiesa. In fondo la sfida rimane sempre la stessa: come annunciare il Vangelo oggi dialogando col mondo in cui si è, come ha fatto Gesù».

(di Miela Fagiolo D’Attilia / foto gentilmente concesse da don Silvano Perissinotto)

25 Novembre 2022
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