4 Gennaio 2024

Una vita a servizio degli ultimi: prima da sposo, ora da sacerdote

Arrivato in Bolivia negli anni ’80, da giovane seminarista, qui ha scoperto la sua vocazione al matrimonio ed è stato sposato per 40 anni con Berta, divenendo padre di cinque figli. Due anni e mezzo fa è rimasto vedovo e ha ripreso il cammino verso il sacerdozio. Oggi don Riccardo Giavarini, bergamasco, continua a lottare con tutte le sue forze per la dignità dei poveri, specialmente delle minori sfruttate.

A El Alto lo conoscono tutti come un padre, come un pastore che non lascia che il suo gregge si disperda. Don Riccardo Giavarini, 69 anni, fidei donum bergamasco, è in Bolivia da 47 anni (ma non sempre come prete) e, accanto alla gente, lotta contro le ingiustizie sociali, lo sfruttamento, la povertà materiale e morale. La città a oltre quattromila metri sull’Altiplano delle Ande boliviane, è quasi una periferia della capitale La Paz, e ospita tutte le vecchie e nuove povertà delle periferie urbane, tra cui la prostituzione, un sistema organizzato legato alla tratta e allo sfruttamento minorile che rende schiave molte ragazzine costrette a vendersi per qualche decina di pesos boliviani. Destinate a finire nei bordelli di altre città, qualche volta a sparire nel nulla. «Camila, è un po’ che non ti vedo, come stai? Sei un po’ dimagrita. Mangi?» chiede don Riccardo alla ragazzina che risponde di si col capo. Intorno a lei Narda, Maria e le altre che all’imbrunire scendono in strada per passare la serata nei retrobottega dei bar.

«È una dinamica che si ripete tutte le sere – spiega don Riccardo -.

Non dobbiamo contentarci di piangere su questa situazione, ma agire come cristiani.

Che prete sono se non sono capace di amare la gente che soffre? Dobbiamo essere al loro fianco e combattere per la loro dignità». Con gli occhi segue Camila che se ne va, passando davanti ai clienti che la stanno aspettando. «Stava negoziando – spiega don Riccardo –. La ragazza viene a fare i compiti con noi ma poi rientra nella dinamica della strada e continua la sua attività. Cerchiamo sempre di esser loro vicino, di orientarle, di far loro capire che esistono le alternative per uscire da certi circuiti chiusi, e trovare le possibilità per scegliere iniziative nuove. Ma ci sono troppe bambine che rischiano di essere reclutate per finire nelle maglie dello sfruttamento sessuale».

Arrivato in Bolivia da giovane seminarista negli anni Ottanta, sul filo della collaborazione tra la Chiesa di Bergamo e la diocesi di La Paz, per una esperienza di pastorale giovanile a Cochabamba, conosce una ragazza, Berta, mette da parte i progetti per il sacerdozio e la sposa. Con lei ha condiviso la lotta per i diritti civili degli empobrecidos, la passione per la Chiesa aperta e solidale e una famiglia con cinque figli. «Sono stato 40 anni insieme a Berta, morta di Covid due anni e mezzo fa – racconta –. Mi sento molto accompagnato da lei, organizzo progetti e attività pensandola sempre; sento forte la sua presenza».

Il lutto non gli impedisce di riprendere gli studi di teologia e di essere ordinato sacerdote nella diocesi di El Alto,

dove ha dato vita a molti progetti sociali, tra cui la Fundacion Munasim Kullakita (“abbi cura di te, sorellina” in lingua aymara). Oltre alla parrocchia alla periferia di El Alto, don Riccardo è impegnato nel carcere minorile Qalauma, per seguire i progetti di giustizia ripartiva; poi ci sono le ragazze della Fundacion e l’aiuto ai migranti di passaggio in Bolivia, provenienti da Venezuela, Colombia, Haiti per poter raggiungere il Cile o l’Argentina.

Questo impegno a 360 gradi è semplicemente il suo lavoro nella quotidianità, come spiega: «Ho cominciato a lavorare su queste tematiche perché convinto che, come Chiesa organizzata, dobbiamo essere presenti nel carcere, sulla strada, nelle piazze, comprendere le dinamiche che si stanno sviluppando e non solo lamentarci dei problemi esistenti. Non basta certo la rabbia o girare gli occhi dall’altra parte. Il prete che ha fretta di andare in chiesa, il seminarista che passa e gira la testa dall’altra parte, mentre lo straniero che viene da Samaria si ferma, scende dal cavallo, soccorre il viandante e spende i suoi soldi per farlo curare dal medico, è un modello sempre valido perché dice: “mi voglio fare carico di queste persone che non hanno aiuto”. Questo dovrebbe essere il nostro atteggiamento come cristiani, come persone che dicono di amare Dio. Ma se non siamo capaci di amare la gente, soprattutto chi soffre queste condizioni di sfruttamento sessuale, di consumo di sostanze, di vita di strada, bisogna riflettere. Nessuno scommette su di loro, noi invece dovremmo essere quelli che si mettono al loro fianco e lottano per dare dignità a queste vittime».

Oggi oltre 70 persone fanno parte dell’equipe della Fundacion, una realtà attiva sul territorio di El Alto, Cochabamba, Santa Cruz, e nelle zone di frontiera. Nel comune di Desagudero, al confine tra Bolivia e Perù, è attiva la struttura Luz Verde che ospita migranti in transito; ma c’è anche Casa Cantuta con laboratori professionali per chi esce dal carcere, mentre presso l’Hogar Trampolin sono ospitate adolescenti sotto i 18 anni strappate alla vita di strada e alle droghe.

È importante passare da un atteggiamento accusatore al farsi responsabili di queste problematiche

– conclude il missionario bergamasco –. Su dieci bambine che passano per le nostre casa-famiglia, sette riescono a farsi una nuova vita, e sono d’esempio per altre persone che quello che sembra impossibile, invece sì, è possibile».

(di Miela Fagiolo D’Attilia)

4 Gennaio 2024
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