Vita del Santo
«Il gigante della carità»: così papa Pio XI lo definì nell’omelia della canonizzazione. Giuseppe Agostino Benedetto Cottolengo fu un gigante di fede e di misericordia, dimostrate fin dalla più tenera età, nella numerosa famiglia in cui fu crebbe. Nacque a Bra, vicino Cuneo, primogenito di dodici figli, ricevendo una profonda formazione verso i poveri e gli ammalati. Ricevette l’ordinazione presbiterale nel 1811 a Torino, poi venne nominato canonico della Chiesa del Corpus Domini. Un episodio segnò indelebilmente la sua esistenza: nel 1827 fu chiamato a somministrare il sacramento dell’unzione a una giovane moribonda, incinta di sei mesi e rifiutata da due ospedali. Di famiglia molto povera e con figli piccoli, la malata non poteva ricevere assistenza medica perché i normali ospedali non l’avrebbero accettata in quanto incinta, mentre il reparto maternità l’aveva rifiutata poiché affetta da tubercolosi. Fu dunque portata in una stanza destinata ai senzatetto ammalati, dove don Giuseppe la assistette fino alla morte, sostenendo la famiglia avvolta dal dolore. Tornato in chiesa, ordinò di suonare le campane e accendere le candele all’altare della Madonna: «La Grazia è fatta. Benedetta la Madonna Santissima!», esclamò. Da quell’episodio maturò la decisione di aprire un ricovero per gli ammalati rifiutati dagli ospedali. All’inizio prese forma un piccolo nosocomio, poi prese vita la Piccola Casa della Divina Provvidenza, destinata all’assistenza di ogni malato: un luogo pregno di carità e accettazione dei bisognosi senza alcun limite. Giuseppe Agostino Benedetto morì a soli 56 anni, stremato dalle fatiche e in profonda umiltà: nella Piccola Casa della Divina Provvidenza, oltre 1300 ricoverati stavano pregando per lui in quei giorni.
Agiografia
«A chi straordinariamente confida nella Provvidenza, Dio straordinariamente provvede»: don Giuseppe si affidava totalmente alla Provvidenza per mandare avanti la sua Piccola Casa, senza accettare alcun sussidio e affermando che avrebbe potuto andare avanti solo stando nella condizione di non possedere nulla. «Ora non c’è più niente, ora vi è necessità, dunque la divina Provvidenza provvederà», soleva ripetere ai suoi assistiti e ai suoi collaboratori quando i sostentamenti scarseggiavano. Una casa che era un luogo di carità assoluta, dove la missione del fondatore veniva esercitata accogliendo tutti senza distinzioni, soprattutto coloro che non avevano possibilità di curarsi, gli orfani, le ragazze in pericolo e le persone con invalidità fisiche e mentali. In un’epoca in cui venivano considerati reietti scartati dalla comunità, don Giuseppe voleva che fossero chiamati «buoni figli» e li prediligeva, circondandosi di affettuose premure, attraverso il suo carattere sempre aperto, allegro e sorridente che diffondeva gioia ovunque si trovasse. Alle persone malate totalmente emarginate dalla società del tempo restituì dignità, e all’interno della Piccola Casa costruì un asilo e una scuola materna per bambini poveri, poi costruì anche una chiesa. Don Giuseppe non mandava via nessuno, apriva le porte a tutti, inclusi i portatori di malattie più rare o contagiose: «Tutti i poveri sono nostri patroni – diceva – ma coloro che sembrano esteriormente più disgustosi e repellenti sono i nostri patroni più cari, sono i nostri gioielli!».
Intervista impossibile di Monsignor Marco Brunetti al Santo
Secondo la tua esperienza, in un mondo sempre più tecnocentrico e narcisistico, cosa hanno da dirci vite segnate dal disagio e dalle deformazioni? Quale profezia contengono?
Credo che nessun limite limiti davvero! Ciascuna persona porta con sé risorse positive e abilitanti, il problema è lo sguardo che noi abbiamo verso l’altro: se sapremo cogliere il bello e il buono di ognuno ci accorgeremo di ricchezze che possono diventare profezia. Ma dobbiamo avere una creatività tale che ci permetta di dare a tutti la possibilità di esprimere il meglio di sé. Ciascun deficit viene compensato da altre abilità. Occorre sempre puntare sulle relazioni interpersonali che ci aiutano a mettere al servizio i talenti di ciascuno. Tutti dobbiamo contribuire a costruire nella società e nell’epoca in cui viviamo la giusta mentalità che consenta di considerare ogni persona allo stesso modo, senza mai scivolare nel modo di pensare che vede certe realtà come uno scarto.
Attraverso quali processi suggerisci di contrastare la cultura dello scarto, promuovendo la vita sempre e in tutte le sue forme: dal suo sorgere fino al suo termine naturale?
Credo che la vita sia un valore assoluto. Un dono preziosissimo di cui nessuno, ma nemmeno la persona stessa, può decidere la sorte. La vita ci permette di esprimere le cose più belle che possiamo contemplare nella società e nel creato. Io credo che la nostra società si distingua dal punto di vista della civiltà proprio perché è capace di curare, proteggere e favorire la vita in tutti i suoi stati. In quest’epoca come in quella in cui sono vissuto io, non mancano guerre e conflitti che ci portano a riflettere sul reale valore della vita: dunque, occorre accompagnare la vita nel suo sviluppo dal concepimento fino alla fine naturale, senza arrivare mai a forme di accanimento. La vita va vissuta pienamente anche nei momenti di sofferenza, di debolezza e va accompagnata nel miglior modo possibile: perché ogni volta che avviciniamo una vita ferita ne traiamo un beneficio per noi.
Il dolore può diventare una via di umanizzazione: quando e in che modo?
Il dolore fa parte della nostra vita, ma sicuramente non possiamo affidarci a forme di dolorismo, che non è mai una cosa positiva. Il dolore rappresenta alcuni momenti forti della vita delle persone, sia quello fisico che quello interiore, molto presente nella vostra società. A volte le persone non riescono a tollerare un malessere tanto forte, come ad esempio le sofferenze dovute al distacco e alla perdita di persone care magari in età innocenti: a volte ci si trova ad avere a che fare con questa tipologia di dolore che ovviamente non è meno pesante e meno importante del dolore più classico dovuto alle malattie del corpo, spesso molto più evidenti. E allora il dolore dobbiamo umanizzarlo, dobbiamo accompagnarlo, per sostenere le persone e far sì che il dolore venga attutito. Umanizzare il dolore significa anche sostenere le persone che vivono situazioni veramente difficili dal punto di vista relazionale o dal punto di vista affettivo, evitando che si ripieghino in sé stesse. Un impegno che deve prendersi l’intera comunità, così come forse avveniva un tempo in cui le persone non erano lasciate a loro destino, ma c’era una presa in carico e una cura espressa da tanti. Il dolore in sé stesso non è mai una cosa positiva, ma può diventare un momento della vita utile per scoprire valori e beni spirituali che diversamente forse non riusciremmo ad avere nella nostra vita.
La tenerezza, la compassione, la sensibilità sono segni di forza o di debolezza? E tu, come uomo, come le hai vissute?
Le caratteristiche della tenerezza, della compassione e della sensibilità sono anche le caratteristiche di Dio. Il modo in cui Lui si rapporta con l’umanità ferita è quello del Dio della tenerezza e della compassione, che si fa compagno di viaggio e patisce con noi quello che stiamo vivendo. La sensibilità e la misericordia sono punti di forza che si contrappongono a tanti altri atteggiamenti: tutti siamo chiamati ad esprimere questo abbraccio e questo sentimento di compassione verso quanti fanno fatica, sono fragili o vivono in situazioni anche disperate. Io come uomo queste cose le ho vissute in prima persona: nel mio piccolo mi sono fatto proprio compassionevole, aprendo le braccia a tutti quelli che rimanevano indietro, che la Torino del mio tempo non era stata capace di accogliere e raccogliere. Per me quelli erano i “buoni figli”, quelli che dovevano essere più amati di tutti gli altri. Oggi chi ha seguito le mie orme chiama quei gruppi di persone “famiglie”: così vengono intesi quei raggruppamenti di ospiti. Perché sono come famiglie che vivono proprio la tenerezza e la compassione, che poi è la stessa espressa da Dio nei nostri confronti.
Segni Iconografici distintivi
È ritratto in abito talare, una tunica lunga e ampia, solitamente nera o di colore scuro. In testa porta un tricorno, uno dei copricapi utilizzati dai sacerdoti. Talvolta viene raffigurato in mezzo agli ammalati.
Tradizione gastronomica legata al culto
La “bagna cauda” è una salsa tipica del Piemonte preparata con acciughe, olio e aglio ed utilizzata come intingolo per le verdure fresche. Essendo una pietanza sostanziosa, solitamente, viene considerato un piatto unico, ma talvolta può anche essere servito come antipasto per una cena tra amici. Infatti, anticamente, era proprio durante i ritrovi e le cene tra amici che si preparava questo piatto che col tempo è diventato il simbolo della condivisione e della convivialità, valori che contraddistinguono l’opera di san Giuseppe Agostino Benedetto Cottolengo. Le origini sono in realtà per metà avvolte nel mistero poiché non si sa precisamente quando, dove e chi abbia inventato questo piatto, che infatti non ha neppure una città di residenza, ma si sa invece che i vignaioli del tardo Medioevo adottarono questa ricetta per festeggiare un evento importantissimo come poteva essere la spillatura del vino nuovo. Per moltissimo tempo, la “bagna caoda” è rimasta solo il piatto dei poveri e dei contadini in quanto gli aristocratici la aborrivano per l’abbondanza di aglio.
Curiosità
Quando Giuseppe Agostino Benedetto aveva cinque anni la mamma lo sorprese a misurare le pareti di una stanza, che egli già sognava di poter riempire di letti per i sofferenti non appena ne avesse avute le possibilità.
Preghiere a San Giuseppe Agostino Benedetto Cottolengo
Signore, che paternamente conforti tutti coloro che si affidano a te,
per intercessione di San Giuseppe Agostino Benedetto Cottolengo,
accresci in noi la fede e l’abbandono nella tua Provvidenza,
il desiderio e la speranza delle cose celesti,
la dolcezza della carità di Gesù Cristo che ci vuole tutti fratelli.
Amen.
(di Autore Anonimo)
Dio, che nel fedele vostro servo,
San Giuseppe Agostino Benedetto Cottolengo,
infondesti in così grande misura lo spirito di carità verso i miseri,
di perseveranza e di fervida orazione,
di abbandono filiale nella vostra Divina Provvidenza,
fate che noi, indegni suoi figli, sforzandoci di imitare i suoi esempi,
possiamo, per l’infinita tua misericordia e per la sua intercessione,
giungere a quella beatitudine di cui egli è in possesso.
Amen.
(di Autore Anonimo)
Fonti
- I santi del giorno ci insegnano a vivere e a morire, Luigi Luzi, Shalom Editrice.
- Il grande libro dei santi, dizionario enciclopedico diretto da C. Leonardi, A. Riccardi, G. Zarri, San Paolo Editore.
- I santi secondo il calendario, prefazione di Gianfranco Ravasi, edizioni Corriere della Sera.