A crescere insieme si impara… anche allo stadio!
Don Nicola Macculi ci racconta il laboratorio dei talenti e le officine didattiche, il progetto di inclusione che nella periferia di Lecce sta contribuendo a costruire una società più aperta e accogliente. Il ruolo della Caritas, in questo percorso, è determinante, ma è altrettanto importante il coinvolgimento di tante altre forze buone presenti sul territorio: dalle scuole all'università, dal terzo settore ai servizi sociali del Comune.
Un giorno allo stadio di questi bambini vale quanto una giornata di lavoro. La felicità e l’entusiasmo scolpita nei loro volti, una foto con i beniamini giallorossi, un autografo, la divisa della squadra indossata: perfino il viaggio in autobus insieme agli educatori, in attesa della partita o degli allenamenti, regala emozioni che resteranno per sempre. È il primo accordo tra una Fondazione Caritas diocesana e un team di calcio di serie A. Parliamo dell’arcidiocesi di Lecce, che ha stipulato un’intesa con l’Unione Sportiva Lecce calcio, per dare vita a iniziative di solidarietà nei vari ambiti in cui opera la Caritas: ascolto, accoglienza, cibo, sanità.
Ma anche quest’accordo s’inserisce nel “Laboratorio dei talenti: officine didattiche”, l’ampio progetto datato 2022, realizzato con il dipartimento di scienze umane e sociali dell’Università degli studi di Lecce e fortemente voluto dal direttore della Caritas leccese, nonché presidente dell’omonima Fondazione, don Nicola Macculi, 65 anni, vicario episcopale per la testimonianza della carità e rettore di Santa Maria della Porta, che a Lecce tutti conoscono come San Luigi .
Il suo braccio operativo è l’avvocato Salvatore Renna, project manager e membro del CDA della Fondazione, referente per i rapporti istituzionali e responsabile del progetto e della raccolta fondi. “Inizialmente avevamo individuato due aree più bisognose del capoluogo salentino – raccontano don Nicola e l’avvocato Renna – per svolgere il progetto direttamente nelle scuole: ossia il quartiere S. Pio, ad alta concentrazione di immigrati (42 %), dove si trova l’Istituto Comprensivo Alighieri Diaz, e la zona 167 B di edilizia popolare, dove c’è l’Istituto Comprensivo Stomeo Zimbalo. Attraverso laboratori didattici pomeridiani della durata di tre ore, finora sono stati coinvolti 200 tra bambini e ragazzi nella primaria e secondaria, provenienti da situazioni di disagio economico e culturale, insieme a 500 loro familiari. In tutto, 1200 bambini e ragazzi dei due istituti per varie iniziative tra le quali Lecce love: mascotte giallo rossa e Give-me five che consente ingresso allo stadio durante gli allenamenti a porte chiuse oppure di scendere in campo con i 22 giocatori prima della partita o in occasioni speciali. Oltre a queste, anche altre attività extra curricolari come visite ai musei, passeggiate cittadine al Parco, esplorazione del territorio, festeggiamenti in occasione di ricorrenze, in cui partecipano anche le famiglie. “L’obiettivo – continuano don Nicola e Renna – è sconfiggere la povertà educativa, che è ereditaria e rischia di perpetuarsi da una generazione all’altra, contrastando l’abbandono e la dispersione scolastica. Oltre ad alcune ore quotidiane di aiuto nello svolgimento dei compiti, l’offerta dei laboratori spazia dalla manipolazione della terracotta alla realizzazione di maschere, da un percorso pedagogico di alfabetizzazione emotiva alla stimolazione della fantasia. La proposta consente di approfondire l’amore per lo studio, la cultura, la socializzazione e di combattere la marginalizzazione”.
“La consulenza scientifica e metodologica dell’Università – precisa l’avvocato Renna – oltre che il monitoraggio costante della Caritas, del Tribunale dei Minori e dei Servizi Sociali del Comune ha permesso di strutturare questo processo formativo in modo da acquisire abilità manuali e cognitive e offrire pari opportunità, selezionando accuratamente in primis gli educatori. Dai 9 della prima annualità oggi sono 5, più volontari e tirocinanti”.
Beatrice Romano, 24 anni, è uno dei 5 educatori. “Mi sono affacciata al progetto – racconta la giovane – che ancora frequentavo la laurea magistrale nell’ateneo salentino e sono cresciuta con questo fiore all’occhiello della nostra diocesi. Lavoriamo molto sulla loro consapevolezza nell’acquisire un metodo di studio, cercando di rendere i ragazzi autonomi. Stimoliamo la loro motivazione intrinseca, perché imparino a studiare per passione e interesse, non solo per dovere. Cerchiamo anche di renderli consapevoli delle loro capacità, per migliorare apprendimento e profitto. Infine puntiamo anche sul senso di solidarietà e aiuto reciproco con i compagni. Con le uscite didattiche vogliamo far crescere la loro conoscenza del territorio, cominciando proprio dal quartiere in cui vivono e dalla bellezza del centro storico. Ci muoviamo senza il cellulare, con le cartine in mano per imparare la toponomastica e far loro distinguere le strade dai nomi”.
Marta Merola, 25 anni, anche lei educatrice, aggiunge che la collaborazione nello svolgere i compiti rende questi ragazzi più attenti anche ai più piccoli, che a volte chiedono loro aiuto. “Il ragazzo timido – prosegue – che prima non parlava con nessuno, oggi conosce meglio la lingua italiana ed è in grado di comunicare, anche se è immigrato. La vita scolastica poi li aiuta a condividere la propria quotidianità anche familiare. Quando creano un prodotto con le loro mani, in laboratorio, lo portano a casa soddisfatti, creando un filo segreto che s’instaura con i genitori, sia pure non presenti. Ed è proprio il dialogo con le famiglie l’arma vincente: dobbiamo valorizzare i talenti dei ragazzi ma anche sostenere realmente i loro genitori”.
Marina Nardulli è la dirigente scolastica dell’Alighieri Diaz ed è fiera di ospitare il progetto nella sua scuola, esattamente quanto i suoi ideatori. “La nostra è una scuola cosiddetta di confine – sostiene la Nardulli – per la presenza di immigrati soprattutto africani e asiatici. Molti di loro devono imparare un alfabeto diverso dal nostro ma sono molto determinati. Spesso vivono in condizioni di vita precaria, senza beni di prima necessità e quindi dopo la prima accoglienza dobbiamo lavorare sugli aspetti linguistici, sociali, culturali, motivazionali per arrivare all’inclusione. Serve un cambiamento di mentalità: le resistenze burocratiche favoriscono la stasi o il non fare, la coperta è sempre corta, ma come dirigente ritengo che un ambiente analogico immersivo e non digitale sia la chiave per favorire anche la multiculturalità”.
“Quando usciamo – conclude don Nicola Macculi – il gioco e l’aria aperta agevolano l’incontro e la socializzazione tra i ragazzi. Abbiamo necessità di colmare il gap di opportunità e conoscenze, in nome di un sacrosanto principio di eguaglianza. Perché questi ragazzi diventino giovani e quindi futuri cittadini migliori, in grado di comprendere che l’istruzione e la cultura non solo servono per se stessi e la propria realizzazione, ma soprattutto per spendere la propria esperienza a servizio degli altri”.
(di Sabina Leonetti – foto gentilmente concesse da Salvatore Renna)