16 Ottobre 2023

A scuola di accoglienza per uscire dalle dipendenze

Il Centro Maranathà, onlus ma anche fondazione, costituisce in Calabria un esempio di accoglienza delle persone più fragili. Don Mimmo, 64 anni, parroco della basilica cattedrale di Mileto, più di 30 anni fa ha iniziato questa esperienza pionieristica, cui si sono ispirate tante altre comunità di recupero italiane. Scopriamone insieme la storia e l'attualità.

“Chi si trova a frequentare, per qualsiasi ragione, le mura di questa struttura, ne esce assolutamente arricchito, non solo dal calore umano e dall’ospitalità, ma anche dal ritrovarsi in maniera semplice in una famiglia, accarezzato dall’entusiasmo e dalla forza, in primis, di don Mimmo Dicarlo, che da sempre lavora a favore degli ultimi”. Così il sindaco di Mileto (VV), Salvatore Fortunato Giordano, dipinge il Centro Maranathà, onlus ma anche fondazione, che costituisce in Calabria un esempio di accoglienza delle persone più fragili. Don Mimmo, 64 anni, è un figlio di questa terra (è nato a Scaliti, frazione di Filandari) e oggi è parroco della basilica cattedrale di Mileto, intitolata a S. Nicola di Bari. È lui il fondatore dell’Associazione Maranathà e presiede il Centro di recupero omonimo, che assiste chi ha problemi di dipendenza da alcool, stupefacenti o psicofarmaci; una realtà che ha alle spalle più di 30 anni di storia.

“Erano gli anni ‘90, c’era il boom dell’eroina e Mileto era uno dei centri di spaccio – racconta Antonella Rotella, 55enne, vice presidente di Maranathà e docente di Psicologia generale all’Università di Palermo -. Davanti alla cattedrale durante le feste natalizie era stato fatto un grande presepe e s’invitava la gente a contribuire alle spese con un salvadanaio. Qualche tossicodipendente lo rubò, e dopo quel gesto orribile ci rendemmo conto che non potevamo più sottovalutare quell’enorme disagio. Allora ero solo una studentessa di filosofia alla Sapienza e non sapevo nulla di droghe. Con don Mimmo andammo in cerca di un servizio pubblico che affrontasse la questione dipendenze: il più vicino era a Catanzaro, a 100 km da qui. L’allora direttore di quel Sert, Berardo Grande, oggi è un volontario nel nostro Centro. Ogni giorno da Mileto portavamo i ragazzi a Catanzaro, per disintossicarli, con il metadone a scalare per tre settimane. I primi ragazzi da noi assistiti iniziavano a uscire da quel tunnel ma il nostro entusiasmo non bastava: occorreva, poi, sorvegliarli giorno e notte perché una crisi di astinenza sarebbe potuta tornare. Serviva un luogo dove ricoverarli, una comunità dove inserirli. Il vescovo Cortese mise a nostra disposizione, in comodato d’uso, una struttura della diocesi, che è ancora oggi operativa. Ci alternavamo come volontari per non lasciare mai soli i ragazzi in cura: accompagnamento e sorveglianza costanti furono vincenti.

Senza volerlo avevamo creato un modello di accoglienza in Italia, il primo nato in una piccola realtà del sud.

Costituimmo una associazione di soli volontari e in seguito aprimmo un centro di prima accoglienza, rivolgendoci al servizio pubblico per la diagnosi e la terapia. Ci eravamo ispirati alle altre comunità già esistenti ma capimmo di aver creato qualcosa di nuovo quando cominciarono ad arrivare volontari da altre parti d’Italia a formarsi da noi e quando i ragazzi, anche dopo essersi disintossicati, non volevano più lasciare la comunità. Fino ad allora era sempre accaduto il contrario: ora dal centro-nord Italia venivano da noi, a vedere come lavoravamo.
Oggi la Calabria conta 14 comunità di recupero, tutte con un servizio di prima accoglienza.
Nel nostro centro – continua Antonella – la fede ha un ruolo fondamentale. Per alcuni segna una nuova ripartenza, per altri il recupero della purezza perduta. La nostra comunità è una realtà aperta, che contamina e si lascia contaminare. Molti giovani e adulti si sono progressivamente integrati e hanno messo su famiglia. La maggior parte di loro, entrando, vive dei conflitti importanti con la famiglia di origine, e noi cerchiamo per questo di favorire il ripristino dei rapporti, coinvolgendole nel percorso di recupero: la famiglia è sempre fondamentale.

Per quelli che non hanno più famiglia Maranathà diventa la loro famiglia.

Tra gli ospiti s’instaurano relazioni di profondo affetto e fratellanza. Se dovessi scegliere il mio ricordo più bello di tutti questi anni – conclude Antonella – credo che direi Caterina, una giovane madre che si è riscattata per i suoi quattro figli ed è riuscita a farli affermare nella sua terra. Quando è venuta a mancare era circondata dall’amore di tutti noi. La vita chiede sempre vita e anche dalla delusione di un momento può arrivare una nuova rinascita”.

Oggi Maranathà accoglie 21 presenze, di cui 16 al centro di prima accoglienza, con 10 volontari e un’équipe psico-socio-pedagogica.
Il veterano è Alberto – zio Alberto per tutti -, 72 anni, a Maranathà dal 2001. Originario di Crotone, quando cadde nel tunnel dell’eroina si trovava a Milano, sposato e con tre figli. Se ne andò via di casa e cominciò a vivere di espedienti, rubando. Nel 1988 finalmente decise di ritornare in Calabria ma, nonostante fosse riuscito a lavorare in una impresa edile, tra eroina, cocaina e dipendenza dai farmaci la sua vita si stava distruggendo. Un amico lo indirizzò al Sert di Crotone e poi nella comunità di Mileto, proposta certamente non facile per un uomo di mezza età. “Ho partecipato al corso di agricoltura per le serre – ci spiega Alberto – poi mi hanno chiesto se volessi accudire gli animali, tanto cari a don Mimmo. Se lo avessi conosciuto prima – aggiunge con una punta di malinconia – non avrei mai distrutto la mia famiglia al nord. Oggi però sono felice di essere bisnonno, ho sei nipotini. Sono sempre disponibile per ogni attività, anche di accompagnamento al Pronto Soccorso e faccio il custode nella struttura. Quando mi hanno rubato l’auto il Vescovo Cortese (che ha retto la diocesi fino al 2007 ed è deceduto nel 2011, n.d.r.) volle ricomprarmene una e io l’ho messa a disposizione della comunità”.

Gennaro, 45 anni, è invece provato dall’esperienza del carcere per 13 anni in 7 strutture diverse, con l’accusa di rapina. “Da ragazzo ero innamorato della Marina Militare – racconta – ma non sono riuscito ad arruolarmi. Mio padre era un pregiudicato e questo mi precluse anche l’accesso all’arma dei Carabinieri. Quando hai 18 anni con il denaro in tasca ti senti onnipotente e poi il carcere rischia di diventare l’università del crimine – afferma convinto -: dentro cominciavamo ad organizzarci in bande sempre più agguerrite per quando saremmo usciti e per giunta io ero sempre più dipendente dalla cocaina. Ho avuto diverse storie – confessa – ma solo mia figlia mi ha cambiato la vita. Arrivò a dirmi che se mi fosse successo qualcosa l’avrei ‘ammazzata’… e allora tramite un amico mi decisi ad entrare nella comunità di Mileto. Nel 2013, finalmente, sono riuscito a dare un taglio con la mia vita da fuori legge. Avevo già ricevuto una educazione cattolica ma il vero cambiamento è arrivato con la preghiera. Sette, otto mesi di programma, 26 mesi di affidamento. Ho trovato lavoro come saldatore in provincia di Vibo. E poi è arrivato anche un angelo che ha abbracciato la mia croce, il mio passato, e che ho sposato in seconde nozze. Oggi opero in comunità come manutentore, sono stato assunto e sono molto riconoscente. Al centro tutti si fidano qui di me e

tutto quello che posso fare per aiutare gli altri fa stare bene anche me.

Mai chiudersi per paura del giudizio della gente!”

Ed è proprio vero che aiutare gli altri dà senso alla nostra esistenza. Rosanna Saladino, assistente sociale a Vibo Valentia in pensione, grazie ad Antonella Rotella dalla scorsa primavera frequenta la comunità per alcuni giorni, occupandosi di tutti i problemi con la giustizia, degli arresti domiciliari, dell’affidamento ai servizi sociali. Mi stavo isolando nel mio egoismo – riconosce –, sprofondata comodamente nel mio divano. Sono vedova, i miei figli sono sposati e l’occasione di sostenere un’amica e dare una mano a don Mimmo sono state le due motivazioni che mi hanno fatto scoprire la bellezza del volontariato. La mia formazione è stata rigida, quasi ‘militare’ direi, ma qui sto imparando anche ad essere più paziente: proprio come loro, gli ospiti, imparano a lavorare insieme alle donne dell’equipe che li assiste e a fidarsi di loro”.

“Chi è in comunità partecipa alla Messa domenicale e agli appuntamenti liturgici liberamente, senza alcuna coercizione – spiega don Mimmo -. Hanno la possibilità di vivere la direzione spirituale e di riscoprire il sacramento della riconciliazione. Il segreto? L’autenticità, la schiettezza, il contatto con la natura. Qui arrivano anche da famiglie mafiose e a me è successo di essere stato minacciato. Mi sono trovato tra risse e in situazioni difficili ma poi vedi persone lasciare una vita orribile e riscoprire la bellezza della famiglia, quella che magari avevano lasciato per spacciare e delinquere. La mia gioia più grande e il ricordo per me più caro rimane proprio quello di un narcotrafficante che ha cambiato vita.”
E, mentre lo racconta, un lampo di commozione gli attraversa lo sguardo.

(di Sabina Leonetti – foto gentilmente concesse da don Mimmo Dicarlo)

16 Ottobre 2023
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