1 Novembre 2016

Quegli ex giocatori che ritrovano la vita e la fede

Il gaming crea danni sociali e dipendenza, ma è tassato meno del pane. Sempre più sacerdoti lavorano per liberare pensionati e famiglie dall’illusione del ‘vincere facile’. Come don Giuseppe, parroco del Sacro Cuore a Niscemi (CL).

Dire no alla diseconomia e ai disvalori che le slot machines impongono è una sfida, soprattutto culturale e pedagogica. A Niscemi, cuore della Sicilia, a 70 chilometri da Caltanissetta, don Giuseppe Cafà, 44 anni parroco del Sacro Cuore, quartiere periferico da 10mila abitanti, nel suo apostolato contro il gioco patologico è partito 3 anni fa da una storia di menzogne. Un padre di famiglia gli aveva chiesto aiuto per la spesa, perché la ditta tardava a versargli lo stipendio. Don Giuseppe gli aveva domandato riferimenti sull’azienda. Erano arrivate risposte vaghe.

Poi aveva proposto un incontro con la famiglia per una cena in parrocchia. Netto rifiuto. Fino alla confessione: “Oggi mi sono giocato tutto lo stipendio di questo mese, don Giuseppe mi aiuti”. “Non sono riuscito a convincerlo a tornare da me – racconta il parroco – non l’ho più visto, ma ho deciso di affrontare questa malattia perché in paese ci sono oltre 150 bar dove giocare. Ho scritto agli esercenti che ammettono le slot machines, supplicandoli di spegnerle durante il triduo pasquale. Non ho avuto risposta, ma solidarietà dei cittadini sì. E soprattutto ho sensibilizzato al problema: nei bar almeno se ne parlava. Il prefetto di Caltanissetta rilevava che era tutto legale (fonte prima per gli esercenti, in media le macchinette fruttano 800 euro al mese). Ma non il fatto che ci fossero 3 bar di fronte alla mia parrocchia (le slot devono distanziarsi di almeno 500 metri dai luoghi sensibili: scuole, chiese, ospedali). Così, oltre alla nostra mensa per i poveri in collaborazione con la chiesa evangelica avventista, ho dato vita ad un Centro d’ascolto, intitolato a Santa Madre Teresa di Calcutta: un osservatorio a 360 gradi sulle povertà, con 9 volontari, tra cui due insegnanti, un assistente sociale e un carabiniere. Lavoriamo con una rete anti-dipendenze: il Sert, lo sportello del Comune, la casa famiglia ‘Rosetta’ di Caltanissetta, l’associazione antiracket e usura di cui faccio parte. Monitoriamo i bisogni in parrocchia, facciamo visite a domicilio – con 10-15 casi al giorno – perché la povertà è soprattutto interiore. In cambio di aiuto nei lavori domestici, provvediamo spesso al pagamento delle utenze e dei pasti.

E tanti che si rivolgono a noi si sono riavvicinati alla fede.

Grazie alla consulenza gratuita di un legale riconciliamo famiglie ferite, perché impoverite e ingannate troppo a lungo dai giocatori compulsivi. Se la famiglia è salda si guarisce anche dalle dipendenze”.

(Sabina Leonetti)

Foto di Andrea Maltese

1 Novembre 2016
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