7 Giugno 2022

Dietro le sbarre, una vera e propria parrocchia

Dopo 42 anni in Calabria e 16 di servizio come cappellano carcerario, il sacerdote padovano Piero Frizzarin condivide questa sua ricca esperienza, vissuta con tanti laici e persone di buona volontà. E tra gli strumenti di riscatto per i detenuti, il ruolo importante della cultura.

Nel carcere di Rossano manca il cappellano. Vuoi andare tu? Nel giro di pochi giorni ho fatto i documenti e ho iniziato il mio ministero in carcere”. Così racconta la sua storia don Piero Frizzarin, 75 anni, in Calabria dal 1980. Possente nella voce, nell’aspetto e nel suo inequivocabile accento padovano. Era il novembre 2006 quando l’allora vescovo di Rossano Cariati, Santo Marcianò, gli chiese per telefono di ricoprire il nuovo incarico nella Casa di Reclusione di Rossano.

Secca la sua risposta: “Eccellenza, se lei pensa che io sia in grado di farlo accetto, ma… cosa si aspetta da me?”. Altrettanto lapidaria la replica del presule: “Che tu animi la pastorale. Che tu dia vivacità alla vita in carcere”.

“Probabilmente – commenta don Piero – si era accorto che la chiesa del carcere, oltre ad essere spoglia, aveva ancora attaccati alle quattro pareti dei fogli formato A4 scritti a mano con un pennarello, vecchi di quattro anni e sbiaditi. Nei giorni successivi alla nomina a cappellano – continua – ho incontrato la direttrice del carcere, Angela Paravati, ponendo anche a lei la stessa domanda”.

“Mi aspetto – fu la risposta della direttrice – che lei si prenda cura dei bisogni umani dei detenuti, ai quali come struttura penitenziaria non siamo in grado di provvedere”.

“Il mio ministero carcerario – prosegue don Piero – è stato guidato da due princìpi: i detenuti sono prima di tutto persone e come tali li ho sempre trattati.

La mia presenza in carcere non deve essere solo assistenza religiosa (messa e confessione), ma è necessario animare una pastorale penitenziaria, esattamente come succede nelle parrocchie.

Il carcere diventa la parrocchia, i detenuti sono i parrocchiani. I 15 anni precedenti di lavoro quotidiano nel consultorio familiare diocesano (1991-2006 per un totale di 9mila ore di consulenza) mi avevano messo in contatto con tutte le sofferenze umane, forgiandomi a vivere l’empatia, l’ascolto, l’attesa, la lotta e la sofferenza, la fedeltà e soprattutto la libertà. Negli anni in carcere mi sono stati d’aiuto la preghiera personale e comunitaria, gli incontri regionali e nazionali con cappellani e volontari, che hanno reso possibile la realizzazione di attività catechistiche e bibliche, la celebrazione dei sacramenti, lo studio, le attività culturali e teatrali, solidali, formative e ricreative per aiutare i detenuti a convertirsi interiormente e a cambiare stile di vita. E ancora la gestione della casa di accoglienza Santa Maria delle Grazie (Pax Christi), con i diversi permessi premio ivi realizzati, i rapporti con la polizia penitenziaria e i vari operatori dei servizi, la creazione dell’associazione di volontariato Quercia di Mamre e lo scambio con i volontari, e soprattutto la nascita del Polo Universitario Penitenziario”.

Un cammino in cui il rapporto con la diocesi, a cominciare dai vescovi che si sono succeduti, sempre vicini e attenti alle esigenze dei detenuti, è stato costantemente collaborativo.

“Era il 2010 – ricorda ancora don Piero – quando il primo detenuto chiedeva di continuare a studiare con la disponibilità, tra gli altri, di una docente in pensione, non credente, che percorreva 100 km al giorno per raggiungere il Dipartimento di Sociologia all’Università di Rende e preparare i futuri laureandi. Oggi sono 6 i laureati di primo livello, 2 campani, 1 pugliese, 3 siciliani. Ad aprile il primo detenuto calabrese ha conseguito una laurea magistrale e altri dieci stanno studiando. Grazie all’Azione Cattolica e all’associazione Quercia di Mamre si sono allargate le maglie con le istituzioni e la pubblica amministrazione, ma anche con la popolazione civile che è necessario coinvolgere nelle attività da realizzare insieme ai detenuti”.

Igino Romano, docente di religione e volontario, ricorda la nascita del laboratorio “Prima Luce”, avvenuta sette anni prima. Qui i detenuti vengono coinvolti in attività di ascolto, assistenza per gli adempimenti fiscali e sanitari, tutela ambientale (raccolta differenziata), incontri con le famiglie, gesti di solidarietà verso l’esterno (ad esempio, ora, l’emergenza dei profughi ucraini).

“Urge un cambio culturale di mentalità – afferma Igino –. L’esperienza di Azione Cattolica si è rivelata formativa anche per noi, permettendoci l’incontro con un’umanità disagiata, in affanno. Da 4 anni siamo un gruppo costante di 30 volontari, nonostante diverse interruzioni per il Covid. La Chiesa in uscita è anche nella forza del laicato”.

Il carcere di Rossano ha dato vita ad un laboratorio di falegnameria e ceramica al suo interno e, grazie alla volontaria Gabriella Latorre, cura anche la gestione di un magazzino Caritas.

“Da 16 anni – precisa Gabriella – mi occupo degli indigenti in carcere. È solo una piccola goccia nell’oceano dei bisogni ma continuerò a farlo finché ne avrò le forze. Cerco di tenere il magazzino pulito, in ordine, accettando indumenti usati in buone condizioni o vestiario fuori moda dagli esercizi commerciali. Dopo aver perso un bimbo di 12 anni, mio marito carabiniere mi ha spronato ad andare avanti e a non distruggermi, e ringrazio Iddio per avermi posto innanzi questo servizio. La mia vita è nelle Sue mani ogni giorno. Tutti cadiamo e dobbiamo rialzarci e se troviamo qualcuno che ci aiuta non esitiamo ad aggrapparci”.

A tracciare un bilancio conclusivo sul pianeta carcerario e le sue fragilità è ancora don Piero. “I detenuti ti prendono le misure, ti osservano a lungo – afferma – e devi essere riservato e discreto per risultare affidabile. È un percorso graduale quello di accostamento alla carità, che poi introduce all’esperienza religiosa ed evangelizzante e al perdono. Un mondo invisibile al quale noi sacerdoti non siamo educati dal seminario e per questo abbiamo bisogno dell’aiuto dei nostri vescovi”.

La chiosa di don Piero è affidata alla preghiera di un detenuto, Marcello, che incarna la speranza di tutti: “Ho vissuto la mia vita tra il bene e il male facendomi illuminare da una luce nefasta. I miei occhi non sono stati in grado di vedere, perché chiusi da un velo malvagio; il mio spirito è stato imprigionato entro una grotta oscura e profonda. Ma adesso, Signore, sono qui ad aspettare il tuo arrivo, ad ascoltare le tue parole, pronto a convertirmi, perché tu mi possa abbracciare, facendomi sentire un uomo”.

Una scommessa vinta, alla fine: dallo stigma che inchioda per sempre dietro le sbarre ad essere strumenti della misericordia di Dio.

(di Sabina Leonetti)

7 Giugno 2022
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