2 Febbraio 2023

Rinascere nelle terre tolte alla ‘ndrangheta. Nel nome di Maria

Venticinque ettari di terra, confiscati ad un clan della 'ndrangheta, sono stati affidati al santuario di Polsi. Insieme a don Antonio Saraco avranno una seconda opportunità di inserimento lavorativo persone con un passato segnato dalla delinquenza. Sotto il manto della Madonna della Montagna.

Quarantadue comuni, tra cui alcuni borghi montani ricchi di storia e tradizioni tra vallate, promontori e la splendida riviera dei Gelsomini. È la Locride, territorio della città metropolitana di Reggio Calabria, nel parco nazionale dell’Aspromonte. Qui si colloca, tra distese di ulivi, Ardore Marina, poco più di 600 abitanti, con una produzione di fichi rinomatissimi, che fanno concorrenza a quelli di Smirne.
Proprio qui venticinque ettari di terra aspra, bruciata dal sole, un tempo in mano a un clan della ‘ndrangheta, confiscati e inutilizzati per 20 anni, ora saranno gestiti dal Santuario di Polsi, noto come “santuario della montagna”, grazie alla diocesi di Locri – Gerace e all’intervento di don Antonio Saraco, classe 1975, parroco di Santa Maria del Pozzo in Ardore e rettore del santuario di Polsi in San Luca, un luogo spesso associato alle mafie e ai summit tra le cosche calabresi.
“È stata una felice intuizione del vescovo Francesco Oliva – racconta don Antonio – che nel 2017, anno del mio insediamento come rettore, mi ha chiesto di incrementare l’azienda agricola del santuario. Avevamo già utilizzato un altro bene confiscato come oratorio per ragazzi nel 2015: una struttura ludico ricreativa con finalità anche culturali. Per questo ho subito pensato di convertire in bene sociale la confisca di questi 25 ettari. L’idea di fondo è dare la possibilità ad alcuni soggetti fragili di lavorare perché, avendo avuto problemi con la giustizia, difficilmente troverebbero collocazione a causa dello stigma sociale e della diffidenza. Il rischio elevato di ricaduta nell’errore ostacola, inoltre, una vita nuova”.
“In secondo luogo – continua don Tonino – vorremmo liberare il santuario da quel marchio che per anni lo ha bollato come il santuario delle ‘ndrine. Il progetto è stato presentato nel 2019, poi bloccato dalla pandemia. Abbiamo pure partecipato ad un bando, di cui attendiamo l’esito, per la coltivazione del nostro pregiatissimo fico bianco, specialità del nostro territorio, per 6 ettari. Per il sostentamento del santuario si coltivavano ortaggi, che vengono poi affidati ai due detenuti assunti, con il supporto dell’agronomo Giuseppe Falcone. Ora dobbiamo capire come orientare il lavoro e l’azienda, come implementare le produzioni per assumere manodopera. Abbiamo anche partecipato – aggiunge don Antonio nel suo racconto – ad un altro bando  per un beneficio sociale: produrre birra nella nostra azienda agricola.

È una sfida per rivalutare il nostro territorio, congelato dal punto di vista sociale per la mancanza di lavoro e la desertificazione, in una prospettiva di speranza e reinserimento”.

La storia di Marco
I giovani da qui sono partiti quasi tutti: sono fuori sede nelle università del sud, ma soprattutto nel nord Italia, lavorano negli ospedali o nelle aziende, insegnano. I più vicini sono a Cosenza. Ma c’è anche chi purtroppo cade nella trappola del denaro facile. Come Marco, 37 anni, due lauree, una in scienze politiche, l’altra in servizi sociali. Insegnava nell’hinterland milanese, precario, come la sua compagna. Poi nel 2016 l’arresto per droga. Dopo l’esperienza nel carcere di Vibo ha dovuto ricominciare da capo, ritrovandosi senza occupazione. “Mi sono rivolto a don Antonio – confessa – perché lo conoscevo. Per pagarmi gli studi universitari mi ero sempre reso disponibile e nel 2020, in piena era covid, lui mi ha dato fiducia impiegandomi nell’azienda del santuario. Sto seguendo un percorso riabilitativo e spero di ritornare a insegnare almeno nel privato, difficile con precedenti penali rientrare nel pubblico. Per 6 ore al giorno mi occupo di cucina, di pulizia e della vendita di articoli religiosi: migliaia i fedeli che arrivano qui per devozione mariana. Il nostro santuario vive grazie alle offerte e alle donazioni. Siamo a 850 metri sul livello del mare, alle pendici del Montalto, in una zona molto fredda e umida e quindi c’è bisogno di ingenti spese per la manutenzione. Speriamo di realizzare anche un punto vendita di prodotti tipici della zona, dalle mele ai salumi, dagli ortaggi alla birra”. Attualmente tutte le attività sono pagate con le offerte del santuario, compresi i dieci dipendenti  stagionali. “Di fronte alla legge – riprende Marco con commozione – sono colpevole e reintegrarsi è difficilissimo. Per questo oggi mi rivolgo a chi è tentato di cercare scorciatoie per arrivare al denaro: meglio un pezzo di pane duro bagnato con l’acqua , piuttosto che rovinarsi la vita e la reputazione per sempre. In carcere ho trovato la forza di resistere tenendo i contatti con la mia famiglia e partecipando alle attività proposte. Ho alleviato le mie sofferenze lavorando e studiando. Purtroppo le mie nozze non sono state più celebrate. La fede però mi ha sostenuto: partecipavo a tutte le celebrazioni, dialogavo con il cappellano del carcere, frequentavo la catechesi. Per questo ribadisco:

non perdete i tesori conquistati, come può essere anche un posto di lavoro, per inseguire la chimera di una vita facile ma disonesta”.

Il tesoro di Polsi
E a proposito di tesori, anche a Polsi ce n’è uno da visitare. “Il tesoro di Polsi. La Madonna della Montagna nella storia, nei doni votivi e nella devozione dei fedeli” è il titolo dell’esposizione inaugurata a dicembre scorso nel Museo diocesano di Gerace. Una mostra voluta dal Vescovo Oliva e da don Antonio Saraco, curata dal restauratore Giuseppe Mantella e da don Letterio Festa, d’intesa con la Soprintendenza e col Segretariato regionale del Ministero della Cultura. Opere d’arte, pergamene, documenti d’archivio, ex voto, paramenti sacri e altre attestazioni della pietas popolare verso la Vergine di Polsi, per un totale di 40 pezzi, esposti nella Cittadella Vescovile di Gerace. Nella cripta della monumentale Basilica dell’antica sede vescovile è accolta la proiezione di video storici recuperati dalle teche Rai. La storia, il mito e la devozione sono poste al centro dell’esposizione con più di 70 reperti provenienti prevalentemente dal santuario della Madonna di Polsi e da altre realtà della diocesi di Oppido-Palmi dove il culto della Madonna della Montagna è molto presente, tanto da portare al santuario decine di “carovane” che percorrono l’Aspromonte per raggiungere il luogo sacro. Opere che parlano di fede, di arte e devozione a Maria, insieme a numerosi documenti di archivio: visite pastorali, platee e regesti conservati nell’Archivio diocesano e nell’Archivio di Stato di Locri, testi e racconti di Corrado Alvaro e persino dei viaggiatori stranieri nel cuore dell’Aspromonte, suppellettili sacre, ex voto dei principi Carafa e Pignatelli, di San Pio X e dei numerosi pellegrini che nei secoli hanno visitato il santuario. Un percorso che ne traccia la storia sin dalla sua fondazione, partendo dal codice del XII secolo che si conserva nell’Archivio Apostolico Vaticano e che si riallaccia all’attività scriptoria e alla Croce di Polsi. Un sinassario agiografico (raccolta di vite di santi) di asceti ed eremiti, vergato a Oppido, nella sede vescovile, scritto in stile di Reggio e datato “aprile 1174”. La mostra è visitabile fino ad aprile 2023. “Anche nella nostra terra, spesso demonizzata – conclude don Antonio Saraco – si può fare qualcosa di buono e bello.

Occorre tenacia, credere in quello che si fa, investire molte energie fisiche e mentali, dare fiducia ai laici”.

Una testimonianza incarnata di Chiesa in uscita.

(di Sabina Leonetti foto tratte dal sito Madonnadellamontagna.it

2 Febbraio 2023
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